EnglishFrenchGermanItalianPortugueseRussianSpanish


16/05/12

Pensiero laico e pensiero cristiano: due antropologie a confronto sulla dignità della persona umana


Intervento al convegno Custodire la vita. Essere famiglia tra fecondità e accoglienza

Il nostro tempo è quello in cui famiglia e vita sono due realtà su cui insiste il maggior numero di contraddizioni sul piano valoriale. Da un lato si cerca di difendere, estendendolo a quanti più soggetti possibili, il diritto ad unioni alternative al matrimonio, e contestualmente ad esso, si invocano per le une i medesimi diritti dell’altro, fra tutti il diritto alla procreazione e alla prole. Dall’altro si difende con ogni mezzo la libertà dell’individuo quand’anche essa fosse orientata a negare la famiglia e la vita nascente, come appare in maniera del tutto emblematica nella scelta dell’interruzione volontaria della gravidanza. L’etica dell’affettività e della vita, e conseguentemente ad esse l’etica sociale e politica, è così il terreno dove il confronto tra visione cristiana e visione laica diviene più critico e conflittuale. In Italia ne abbiamo avuto prova a più riprese negli scontri politici sui temi del divorzio, dell’aborto, della fecondazione assistita, del termine della vita.

Scontri politici che però hanno in verità un retroterra culturale. Ciò che in maniera anche abbastanza semplicistica viene tradotto come opposizione tra visione religiosa e dogmatica e visione laica e scientifica della questione, è invece l’antitesi tra due antropologie, due visioni dell’uomo e, ancor più a monte, due modi di concepire il rapporto dell’uomo, della sua facoltà conoscitiva, con il problema della verità e più in generale con il tema della concreta possibilità di dare risposte, certe anche se mai pienamente compiute, agli interrogativi sul senso profondo dell’esistenza e sul destino ultimo. Due antropologie, due visioni dell’uomo, dunque. Ed è questo il punto cruciale su cui è possibile discutere del tema e delle sue contraddizioni senza rischiare di cadere nella retorica.

La Rivelazione giudeo-cristiana assegna all’uomo un posto di vertice nell’opera della creazione poiché egli, unica fra tutte le creature, partecipa del soffio dello Spirito divino (Gen 2,7). L’uomo è così creato ad immagine e somiglianza di Dio: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”» (Gen 1,26). E ancora: «O Signore, davvero hai fatto l’uomo poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8, 6); «Io ho detto: “Voi siete déi, siete tutti figli dell’altissimo”» (Sal 82, 6). La grandezza dell’uomo, pertanto, sta non in quello che fa ma in ciò che è. Quest’uomo, che è già per sua natura «poco meno di un dio», è successivamente da Cristo fatto diventare pari a Dio, misteriosamente inserito, per puro dono di grazia, nella vita trinitaria. Tutto ciò avviene a partire e grazie all’Incarnazione del Figlio di Dio, all’assunzione cioè della natura umana da parte della Persona divina del Verbo (Gv 1,14: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»). Afferma Paolo nella Lettera ai Romani: «Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,28-29). Il Figlio è il solo che conosce il Padre (Mt 11,27) e chi è conformato a lui, come lui potrà, al termine di questa vita e oltre di essa, vedere Dio faccia a faccia, godere in eterno della sua stessa beatitudine, inserito per sempre nel mistero della sua Vita Eterna: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,12).
Tutto questo è insegnato dal Magistero della Chiesa – ovvero dal Papa e dai vescovi in comunione con lui – come verità autenticamente rivelata da Dio e da essere assolutamente creduta dai fedeli. Il CCC, citando la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, al n. 87 recita: «I fedeli, memori della parola di Cristo ai suoi Apostoli: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori».

Ma perché la Chiesa si interessa di questioni filosofiche e scientifiche? Essa è convinta di come la Rivelazione, pur se è comunicazione di verità in nessun modo esperibili – e non può essere diversamente, altrimenti non si capisce perché si debba parlare di fede – non può pretendere di essere creduta solo sulla base di un principio di autorità, di una presunta comunicazione divina, la cui autenticità andrebbe in ogni caso provata. È per questa ragione che fin dai primissimi secoli essa ha fatto largo uso del pensiero filosofico greco per suffragare la ragionevolezza, e quindi quantomeno l’ipotetica possibilità, delle verità di fede. Così, la capacità di arrivare ad affermare con certezza l’esistenza di un Primo Ente sommamente intelligente e libero è il necessario presupposto della possibilità di una sua specifica rivelazione storica. La teoria delle verità di ragione come presupposti necessari alla possibilità teorica delle verità di fede viene ulteriormente perfezionata in epoca medievale dal pensiero di importanti autori come Anselmo di Canterbury e, soprattutto, Tommaso d’Aquino con la sua personalissima dottrina dei praeambula fidei. Con questa dottrina dei rapporti tra ragione e fede Tommaso si spinge ben oltre più di ogni altro autore fino a quel momento. Il suo pensiero, rivoluzionario e scandaloso insieme, non vuole semplicemente dire che ci sono verità di ragione che confermano le verità di fede, o che preparano alla fede (una posizione sostenuta fin dal I secolo). I praeambula di Tommaso sono verità di ragione senza avere cognizione delle quali e senza avere la certezza assoluta delle quali non è possibile in nessun modo avere fede autentica. Così, se non fosse vero che l’uomo abbia un’anima spirituale e immortale, non potrebbe essere creduto in nessun modo che, ad es., Cristo ci è venuto a salvare dai peccati o che ogni uomo è chiamato ad una vita di eterna beatitudine con Dio. In tal maniera, pur salvaguardando il principio per cui la fede è dono divino (e in ogni caso va specificato in che senso lo sia), resta, per ciò che ci riguarda, che la fede non può assolutamente sorgere in un uomo senza che costui abbia prima compiuto nella sua mente un itinerario logico, una successione di verità di ragione che, a confronto di esperienze empiriche particolari, lo induca a compiere l’assenso della fede.
In tempi più vicini a noi, ritroviamo la stessa posizione in importanti documenti, come la Costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I (1870); molto esplicito quanto significativo al riguardo quanto scrive Pio X nella Pascendi dominici gregis:

Inoltre, benché sia detto che Dio è oggetto della sola fede, ciò nondimeno deve solo intendersi della realtà divina, non già dell’idea di Dio. L’idea di Dio è pur essa sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell’ordine logico, si solleva fino all’assoluto ed all’ideale. È dunque diritto della filosofia o della scienza sindacare l’idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione, correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo (…). Per ultimo è pur da osservare che l’uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova in se stesso un intimo bisogno di armonizzare la fede con la scienza in modo tale che non si opponga al concetto generale che scientificamente si ha dell’universo. Così dunque si evince che la scienza è totalmente libera dalla fede; la fede invece, per quanto la si dica estranea alla scienza, è a questa sottoposta. (Pio X, lett. Enc. Pascendi dominici gregis, 8 settembre 1907).

L’antropologia della Chiesa, dunque, procede da una concezione “forte” della ragione, ovvero della ragione capace di dare vere stabili e sicure risposte, seppur entro i limiti dell’intelligenza umana, a quelle grandi verità insieme sufficienti e necessarie a suffragare le verità rivelate. Scrive infatti al proposito Giovanni Paolo II:

È possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non-contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell’umanità. È come se ci trovassimo di fronte ad una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a formulare i principi primi e universali dell’essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs lògos, recta ratio. (Giovanni Paolo II, lett. Enc. Fides et ratio, 14 settembre 1998).

A questa concezione “forte” della ragione, si oppone una concezione “debole”, ovvero di una ragione ritenuta incapace di dire alcunché di criticamente fondato sull’esistenza di realtà metafisiche. La conseguenza sul piano antropologico è quella di fondare una supposta superiorità della persona umana su basi esclusivamente empiriche, legata a ciò che l’uomo da a conoscere di sé nelle attività concrete. La parabola storica che passa dal rifiuto della ragione metafisica fino al rifiuto della ragione in quanto tale come strumento efficace per la conoscenza del vero è lunga e complessa e non può pertanto avere in tale sede adeguata trattazione. Tuttavia va qui detto come tale ragione debole stia dietro ad una concezione antropologica positivistica che nega all’uomo qualsiasi superiorità di natura, ovvero esclude che la grandezza della persona umana stia in una sua presunta “parentela divina” e, a fortiori, in una sua supposta vocazione ad una vita ultraterrena. Il valore della vita umana, dunque, è legato esclusivamente al significato che ciascuno soggettivamente gli intende dare. Anche il detto secondo cui “i confini della mia libertà sono le libertà altrui”, in piena conformità con la logica debole vale di fatto solo e soltanto per quegli uomini psichicamente coscienti: nessuna garanzia è così riconosciuta agli altri individui, privi di coscienza psichica, e privi di qualcuno che ne garantisca il rispetto della pura e semplice esistenza in vita. Perché questa riduzione? Perché l’attività psichica, in un paradigma empirista che nega ogni realtà metafisica, è l’unica attestazione possibile di soggettività, nel senso che la soggettività dell’individuo, e quindi il suo essere persona, coincide con la sua attività neurocognitiva. Se ne conclude così che l’uomo è persona – e ha diritto a tutto quanto compete alla persona nella sua dignità, primo tra tutto il diritto ad esistere – fintanto che sussiste in atto la sua vis cognitiva, la sua capacità di intendere e volere.

Così, nella piena convinzione che unica razionalità possibile sia quella debole, empiristica, funzionalistica, soggettivistica, ne consegue che ogni razionalità diversa, e soprattutto “diversa” nel segno di una ragione forte, metafisica, essenzialista, oggettivista, sia nient’altro che il rigurgito di un dogmatismo di passata fortuna, in affanno su posizioni di potere che cerca in tal maniera di riguadagnarsi. Baruch Spinoza, il cui pensiero è fondamentale per capire il passaggio dalla ragione della trascendenza a quella dell’immanenza, riguardo al ruolo del pensiero religioso nell’orizzonte culturale umano ha questa opinione:

«La fede richiede dogmi non tanti veri, quanto pii, cioè capaci di spingere l’animo all’obbedienza. Ed anche se tra quei dogmi molti se ne trovano che della verità non posseggono nemmeno l’ombra, basta che chi li accoglie non sia consapevole della loro mancanza di verità, altrimenti sarebbe, a rigore, un ribelle». (Cfr. Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, XIV, UTET, Torino 1997, p. 624.)

È riguardo all’egemonia del pensiero debole, della negazione di verità assolute e della convinta affermazione di certezze relative senza lasciare spazio ad una ragione metafisica criticamente fondata (ormai relegata al ruolo di pensiero di nicchia della Chiesa e di qualche solitario “eroe” del pensiero laico) che Benedetto XVI scrive:

«Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf. Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (Joseph Ratzinger, omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005).

E ancora:

«Viviamo in un tempo caratterizzato, in gran parte, da un relativismo subliminale che penetra tutti gli ambiti della vita. A volte, questo relativismo diventa battagliero, rivolgendosi contro persone che dicono di sapere dove si trova la verità o il senso della vita» (Benedetto XVI, Discorso al Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi, Freiburg im Breisgau, 24 settembre 2011).

Per tutte queste ragioni, in conclusione, la battaglia a difesa e custodia della vita va condotta sul piano culturale, ovvero della formazione delle intelligenze a imparare a pensare in modo realmente scientifico, ovvero criticamente e rigorosamente dimostrato, senza assumere alcun assunto culturale come teoreticamente definitivo, solo perché ci sarebbero sostenitori più o meno comunemente acclamati come auctoritates a suffragarlo. Sarebbe in verità la costituzione di una vera e propria religione rovesciata, dove non tutti gli uomini indistintamente godrebbero di pari diritti e pari dignità.

Massimiliano Del Grosso

www.formazioneteologica.it

Extra: SEFT - Servizio ecclesiale di formazione teologica