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Jeròme Lejeune: riflessioni e testimonianze sul medico, venerabile, che scoprì la sindrome di Down
DI PUNTO FAMIGLIA
Genetista e pediatra, Lejeune contribuì a scoprire l’anomalia cromosomica che causa la sindrome di Down. Fu fervente sostenitore della vita. Alcuni testimoni lo hanno ricordato durante il Convegno a lui dedicato, tenutosi presso la Cittadella della carità “don Enrico Smaldone” (Angri, SA) domenica 26 maggio. Tra i presenti, la postulatrice della sua causa di beatificazione e il genero, presidente della Fondazione a lui dedicata.
“La famiglia e la vita poste al centro”: questo, per Lidia Lanzone, che ha parlato a nome della Fraternità di Emmaus, è stato il punto focale del convegno promosso insieme alla Federazione Progetto Famiglia e Editrice Punto Famiglia, che si è concluso domenica 26 maggio ad Angri (SA). L’ultimo appuntamento di un’intensa settimana di appuntamenti, un convegno sulla figura del Prof. Jérôme Lejeune, tenutosi presso la Cittadella della carità “don Enrico Smaldone”.
Il convegno, dopo un’introduzione generale della presidente di Progetto Famiglia, Giovanna Abbagnara, si è ufficialmente aperto con la presentazione di un video dedicato al noto medico, luminare della genetica e illuminato dalla fede in Cristo.
Pediatra e attivista francese, Lejeune scoprì nel 1951 l’anomalia cromosomica che causa la sindrome di Down. Era un uomo umile, pur nella sua notorietà. Pacato, ma diretto e onesto nel dire ciò che pensava. Era contrario all’aborto e aveva l’ardire di definire la pillola abortiva RU84 “pesticida umano”. Questa sua posizione controtendenza – ha spiegato Abbagnara nel suo intervento – gli costò la perdita del Premio Nobel. Per lui, tuttavia, i riconoscimenti non contavano molto: i pazienti erano al centro del suo operato. Inoltre, aveva preso sul serio il giuramento di Ippocrate e voleva essere coerente. La frase che lo motivava di più a vivere nella pienezza la sua missione di medico era l’espressione del Vangelo dove Gesù afferma: “Tutto quello che avete fatto a questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”.
Subito dopo la visione del video, l’incontro è continuato con la relazione principale del convegno, affidata ad Aude Dugast, postulatrice della causa di beatificazione del medico, venerabile per la Chiesa Cattolica dal 2021. Dugast ha tenuto a spiegare che Lejeune è diventato “un grande servitore della vita umana”, cosa che desiderava sin da quando era un semplice studente di medicina. Egli ha messo, inoltre, la sua professione al “servizio della verità”, perciò è diventato un docile strumento nelle mani di Dio. Ha fatto presente Dugast che, infatti, “vita e verità ci portano verso Dio”. In un italiano perfettamente comprensibile, seppure la sua lingua madre sia il francese, ha detto inoltre che la “compassione” e la “misericordia”, a suo avviso, sono stati i tratti principali dell’agire di Lejeune come uomo e come medico.
“Una volta divenuto medico – ha raccontato – si spese per aiutare le famiglie con bambini che avevano sindrome di Down (allora definiti “mongoloidi”, ritardati mentali): voleva liberare le famiglie dallo stigma sociale”.
Ebbene “riuscì in questo intento”, oltre che con molta dedizione sul piano umano, anche “mostrando che dietro a al modo di essere di quei bambini speciali c’era una motivazione genetica”, ovvero una differenza a livello cromosomico.
Molto importante, in tutto ciò che fece, per Jérôme Lejeune fu il profondo legame con la moglie Birthe, con la quale condivise la sua missione al servizio dei pazienti, i suoi viaggi, i suoi numerosi impegni in ambito accademico e soprattutto la crescita dei loro cinque figli. “Tutto ciò che fece, fu vissuto da lui come un progetto comune”, afferma Dugast.
La moglie, infatti, fu per lui la donna forte del Vangelo, disposta a condividere gioie e fatiche dell’estenuante lavoro del marito. “Ne parlo spesso, quando incontro le coppie di fidanzati”, ha detto, ancora, la postulatrice della causa di beatificazione, testimoniando come l’amore per il lavoro e quello per la famiglia possono coesistere e armonizzarsi.
Dopo di lei, è intervenuto Jean-Marie Le Méné, Presidente della Fondazione Jérôme Lejeune, a cui è stato conferito, nel corso della serata, il Premio Ambasciatore della Famiglia 2024. Egli ha ricordato la bella amicizia che il medico francese aveva con Giovanni Paolo II. Le Méné, genero del noto dottore, in quanto aveva sposato la figlia del genetista, fu testimone dell’impegno dell’uomo a favore dei più deboli e anche della sua amicizia con il Papa polacco: “Una settimana dopo il nostro matrimonio (quello con la figlia ndr) mi chiese di andare con lui a visitare il Papa”. A questo proposito, ha raccontato alcuni aneddoti esilaranti che hanno strappato un sorriso pubblico. Giovanni Paolo II, così come Lejeune erano, infatti, due persone ironiche, che, pur se da due diversissime posizioni, condividevano molto, in primis la stessa fede e lo stesso amore per la vita.
Il 2 dicembre del 1993, all’età di 67 anni, gli venne diagnosticato un cancro ai polmoni, che lo condusse alla morte. Anche negli ultimi tempi della malattia (che lo condusse alla morte il 3 aprile 1994) diede, però, prova di amore e coraggio. Fa notare, Giovanna Abbagnara, a conclusione dei due ricchi interventi su di lui, raccontando un aneddoto di quel periodo, che, quando si trovava ricoverato in reparto circondato da malati oncologici che gridavano tutto il tempo, impedendogli di riposare, alla domanda se volesse essere spostato rispondeva sempre di no, anzi, chiedeva di lasciare la porta aperta, così se i suoi compagni di stanza, straziati, dovevano chiedere aiuto poteva lui stesso chiamare più facilmente gli infermieri. Ai figli, prima di morire, volle lasciare un messaggio come testamento: “Siamo nelle mani di Dio. l’ho verificato molte volte durante la mia vita”.
La conclusione e il momento finale di preghiera sono stati affidati a don Silvio Longobardi, fondatore di Progetto Famiglia e custode della Fraternità di Emmaus, il quale ha tenuto a precisare che la santità della vita di Jerome Lejeune è stata già riconosciuta, nel momento in cui la Chiesa lo ha proclamato venerabile; dunque, si è già sicuri della sua fedeltà al Vangelo e per questo può già essere preso ad esempio. “La sua testimonianza a favore della vita, – ha detto don Silvio – mettendo in secondo piano la carriera, accettando ingiurie e minacce, ci commuove e ci affascina”. “La sua – ha terminato – è una testimonianza che fa bene. Fa bene a quanti hanno scelto la medicina come lavoro ma anche a quanti sono impegnati in qualsiasi altra professione, per ricordare che non bisogna mai venire meno all’impegno di dire sempre la verità”.