news/
Medici, minatori e sofferenti.

La giornata inizia sotto la piccola pailotte del giardino dell’Oasi. Il figlio di sette mesi del guardiano notturno, che stiamo curando da alcuni giorni per un’entomodermatosi, con numerose punture di insetto e forse ragni alla gambetta, arriva in braccio alla sua mamma per la medicazione quotidiana. Vengono da lontano, a piedi, almeno una decina di chilometri, mattino e sera da tre giorni. Nel medicare la gamba, Salvio ed io notiamo che Donald, così si chiama il piccolo, è febbricitante, sguardo spento, tosse con muchi.
La mamma spiega in moore alla suorina che ci fa da interprete che ha avuto anche diarrea. Rientriamo in casa a prendere termometro e fonendoscopio. Al monitor del termometro la temperatura sale progressivamente fermandosi a 38.7 °C. Auscultatoriamente, il respiro è aspro e superficiale, qualche sibilo. La gola è pulita, non si palpano linfonodi ingrossati. Non possiamo ottenere esami del sangue e urine a breve termine. Qui è molto difficile: i tempi sono lunghi. Decidiamo per una terapia empirica. Salvio prepara la sospensione di antibiotico pediatrica, che in qualche modo riusciamo a fargli bere con l’aiuto della mamma che tappa il nasino al bimbo. Poi una compressina di cortisonico e una suppostina di tachipirina. Infine medichiamo la gamba. Tornerà stasera per la medicazione e la visita di controllo.
Dopo colazione partiamo con le auto per visitare la miniera d’oro di Kostenga. Abbiamo sentito dire che avventurarsi nei pressi della miniera è un po’ pericoloso ma suor Elodie ci rassicura con la sua presenza e con quella di un catechista, che lei ha chiamato a farci da guida. Conosciamo bene Elodie e ci fidiamo ciecamente di lei: non ci metterebbe mai in pericolo. Infatti l’esperienza fatta è stata bellissima, intensa ma anche drammatica nel prendere coscienza di come vivono e lavorano in quel luogo migliaia di persone. Un vero girone infernale… In pratica lo chef (il capo) di quel territorio affitta lotti di terreno più o meno grandi a diversi gruppi familiari che decidono di rischiare la sorte e investire nella ricerca dell’oro di cui quel territorio pare sia ricco. Ogni gruppo di lavoro scava il proprio pozzo verticale fino a cinquanta metri di profondità e oltre; poi, servendosi di una corda avvolta intorno ad una carrucola artigianale, diversi uomini si calano all’interno e incominciano a spicconare la roccia, mandando su i detriti per poterli preparare al setaccio. Intanto per allargare “il buco” nella profondità del pozzo creando una galleria orizzontale sempre più lunga, tutti i minatori risalgono in superficie, tirati su a forza di braccia da uomini che fanno girare due ruote poste ai lati della carrucola su cui si riavvolge la corda. Poi si ricala la corda per il minatore restato nelle viscere della terra. Questi prepara la dinamite, accende una lunga miccia poi percuote un barattolo di latta, il “segnale” che i minatori hanno adottato per farsi tirare su o far calare giù cibo ed acqua durante il lavoro, e uomini in superficie girano quanto più velocemente possibile l’artigianale verricello per riportare in superficie chi ha acceso la miccia. Poi tutti insieme scappano lontani dal buco aspettando la detonazione, avvenuta la quale si ritorna giù per continuare la spicconatura della roccia. I turni sono SOLO di ventiquattro ore a testa!



E man mano che si allarga (si fa per dire) la galleria possono lavorare insieme in uno spazio strettissimo, senza luce, senza aria, fino a dieci minatori. A proposito di aria: abbiamo chiesto come facciano a respirare i minatori sul fondo visto che noi in superficie oggi in quest’aria carica di polveri e scarichi di motori a diesel e di fuochi che bruciano la spazzatura rilasciando nell’aria diossina, arsenico e altre sostanze tossiche, stentiamo a farlo. Candidamente ci mostrano un ventilatore, di quelli casalinghi, che loro calano giù sul fondo, collegato ad un lunghissimo cavo elettrico, per dare “sollievo” a chi combatte con la roccia. Ci aggiriamo tra queste anime sofferenti quasi increduli. Bambini molto piccoli, seduti per terra o su cumuli di pietre sotto un sole impietoso, aspettano che prima o poi qualcuno si occupi di loro. Uomini da poco usciti dalle profondità della terra si lavano del fango e della polvere che hanno addosso con tutti i vestiti; dietro un angolo troviamo due donne e una bambina, che, sedute per terra, con rozzi martelli, spaccano incessantemente le pietre portate su dai minatori fino a ridurle in particelle piccolissime che poi verranno triturate fino a ridurle in polvere molto fine. Hanno le mani gonfie e mentre noi le guardiamo quasi non reagiscono alla nostra presenza, lo sguardo fisso in avanti, il braccio che si solleva e ricade di continuo in un movimento estenuante che durerà tutto il giorno per poi riprendere domani… Mentre camminiamo avvertiamo profonde e cupe detonazioni. Non ce ne preoccupiamo più di tanto perché la guida ci ha avvisati in precedenza che nel caso le avvertissimo non si tratta di rumori di guerra, che pure c’è nel nord e in altre parti del Paese; non sono armi di jihadisti, che pure compiono attentati in alcune aree ma sono solo ulteriori varchi che i minatori aprono nei vari pozzi alla ricerca dell’oro. Oro che abbiamo la fortuna di vedere, se pur in piccolissime scaglie, in uno “stand” dove un addetto sta diluendo in un catino, con rapidi movimenti, la terra addensata. Lo sguardo attento sul fondo del recipiente sotto un sole accecante, improvvisamente si alza e mostra orgoglioso ai suoi compagni di lavoro ed anche a noi le briciole di oro. Tra poco verserà nel catino mercurio liquido, tossico, e a mani nude amalgamerà oro e mercurio per rendere il primo solido e poter così raccoglierne le scaglie preziose e conservarle in una bustina. Chissà quanti giorni, settimane, mesi, anni, vivrà questo popolo di derelitti in queste condizioni disumane, sostenuti solo da un sogno, quello della febbre dell’oro.


Esseri umani in ogni caso per niente diversi da noi: ce li avevano descritti aggressivi, scostanti, probabilmente infastiditi dalla presenza di estranei, per di più bianchi… Invece sin dall’arrivo, saluti, strette di mano, abbracci, il desiderio di farsi fotografare insieme a noi. A suor Elodie offrono addirittura da mangiare quando lei chiede cosa bolle in una pentola arrugginita sopra un fuoco allestito su una pietraia… Intanto il danno ambientale è elevatissimo: spesso i minatori scavano così in profondità da raggiungere polle di acqua pura, la stessa, paradossalmente, che noi cerchiamo, finanziamo, per realizzare pozzi che diano acqua da bere agli abitanti assetati dei villaggi nella savana, ai loro bambini, ai loro animali, al sostegno dell’agricoltura. Qui, invece, se si raggiunge una polla d’acqua la si aspira completamente e subito per consentire ai minatori di poter lavorare sulla roccia profonda. Un vero dramma ambientale e umano per questi disperati che avvelenano se stessi e la propria terra per mere ragioni di sopravvivenza nell’anno 2025 del Signore…




Nel pomeriggio torniamo per un po’ al San Lazar (la casa delle streghe) per visitare l’anziana Marie, cieca, febbricitante, così come promesso ieri. La troviamo nella sua “stanza” riversa su una stuoia, circondata da tutte le sue povere cose. Suor Victorine deve scuoterla per svegliarla e aiutarla a mettersi seduta: da sola non ce la fa. Dice che ha ancora mal di testa ed è molto debole. Le misuriamo la temperatura e Salvio si china ad auscultarle lo scheletrico torace. Che pena vedere un essere umano ridotto in queste condizioni. E quante ce ne sono, purtroppo, in questo remoto angolo di mondo. Sale da dentro un così profondo sentimento di dolore, di amarezza, di frustrazione, da farti sentire inutile di fronte a questa inerzia incontrollabile, su cui non si ha alcun potere: ricchezze inimmaginabili da una parte del mondo, sprechi indicibili; dall’altra il purgatorio (se non l’inferno, in Terra)! Aiutiamo Marie a mandar giù una compressa di paracetamolo con la speranza che possa lenire un po’ i suoi dolori e lasciamo un blister di farmaci ad una signora che si occupa pietosamente di tutte queste donne, che pure hanno avuto una vita, una storia personale ma che tutti, sembra, hanno dimenticato.
Usciti da San Lazar andiamo a trovare la madre di Elodie, che non abbiamo ancora salutato. Nel cortile della sua casa fervono i preparativi per la celebrazione del funerale del defunto marito. È usanza da queste parti ricevere tutti i parenti, gli amici, i conoscenti, gli abitanti del quartiere nei due giorni precedenti la celebrazione in chiesa del funerale e dar loro da mangiare e da bere. Grandi e piccoli lavorano alacremente, spostando cumuli di legna, lamiere, anfore per il dolò, spazzando, ripulendo e riassestando il terreno del cortile. Un fratello di Elodie tenta di eradicare un tronco d’albero infisso quasi al centro del cortile e continua a scavare la terra intorno alla base del tronco, senza successo. Allora tutti gli uomini del nostro gruppo, giovani e meno giovani, decidiamo di dargli una mano, così a furia di spingere e di tirare e di sollevare da una parte e dall’altra il tronco, riusciamo finalmente a staccarlo dal terreno. Tutti i ragazzini e le donne presenti ridono e si divertono alle nostre spalle. Poi, dopo aver un po’ giocato con tanti meravigliosi bambini e aver distribuito loro i bon bon, ci congediamo e rientriamo all’Oasi che è ormai buio.
A cena questa sera è presente padre Jan, rientrato da Ouaga perché domani riaccompagnerà proprio lì Agnese, Giovanna, e i due giovanissimi Antonio e Giovanni, che hanno concluso la loro esperienza africana. Dopo cena, i discorsi come al solito commoventi di commiato, tenuti questa volta dalla dolcissima suor Lea e dai partenti. Poi le ragazze del noviziato, le postulanti e le suorine organizzano a sorpresa qualche canto e qualche ballo al ritmo di un jambe per allontanare la tristezza. La giornata si conclude con due visite mediche, una è del piccolo Donald, il primo paziente di questa mattina, che sta leggermente meglio ma che avrà ancora bisogno di cure nei prossimi giorni.