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Essere padri, essere figli

Ciao, papà, come stai? E come sta il papà di Salvio? Hai visto, alla fine ce l’abbiamo fatta anche quest’anno a venirvi a trovare. Non avremmo saltato questa tappa per nessun motivo al mondo. Questa mattinata è stata un po’ dura: abbiamo viaggiato e guidato per molte ore nella savana su strade sterrate, difficili, per raggiungere il villaggio del secondo pozzo donato dal Gruppo Albert in questo viaggio missionario e andare a controllare il funzionamento di un altro, donato l’anno scorso, in un altro villaggio.
Siamo rientrati all’Oasi verso le 14:00, totalmente ricoperti di terra rossa e provati dalla calura ma non abbiamo avuto il tempo di fare una doccia. Un rapido pranzo e alle tre del pomeriggio eravamo già di nuovo in macchina per raggiungervi. Sì, lo so che siete sempre con noi, ma questo villaggetto semplice che vi unisce, che vi ricorda con una targa su un pozzo di acqua pura donato agli abitanti di questo fazzoletto di savana sperduta, per noi è speciale, è un po’ casa.

Perché non è stata una semplice targa ad unire i vostri nomi, Filippo e Giuseppe; non è stata la nostra volontà di figli di dedicarvi quest’opera di solidarietà. No: a “portarvi” qui, è stato il vostro modo speciale di essere padri, il vostro saperci amare come solo un cuore di padre sa amare i propri figli; è stata la vostra bontà d’animo verso il prossimo, quel sentimento meraviglioso di solidarietà che ci avete trasmesso, quell’essere gioiosi nel dare senza pretendere nulla in cambio; essere essenziali, semplici come voi, senza mai girarci dall’altra parte… E questo villaggetto vi somiglia proprio: semplice, modesto, essenziale, non solo nel paesaggio circostante, nelle poche, povere capanne, ma anche nelle persone.



Appena scesi dalle due auto, l’anziano del villaggio, con il suo pizzetto canuto, quello con cui l’anno scorso ci eravamo abbracciati come padre e figlio, ci scorge da lontano. Si alza a fatica dall’ombra di un albero sotto cui si era rifugiato per il gran caldo e, claudicante, con l’aiuto di una stampella, viene verso di noi. È invecchiato ancora (qui la vita dura ti consuma in fretta) ma ha sempre la stessa luce in quegli occhi neri come carbone. Prima che Paul, la nostra guida, ci ripresenti, lui ci ha già riconosciuti, ha già fissato il suo sguardo su di me e su Salvio, già tende verso di noi la sua mano mentre un sorriso paterno si allarga sul suo volto rugoso. Ci stringiamo le mani e ci abbracciamo ancora. Poi, con i nostri compagni di viaggio e alcuni abitanti del villaggio e i soliti meravigliosi bambini, restiamo all’interno del perimetro del pozzo a parlare per un bel po’.



Ci dicono che il pozzo manifesta problemi di portata e si discute pacatamente sul perché e sulle soluzioni possibili. A noi dispiace che non stia funzionando a regime ma trovo bello starsene lì a chiacchierare tra esseri umani provenienti da due realtà lontanissime tra loro, che, tuttavia, si incontrano in una specie di riunione di condominio improvvisata nel bel mezzo della brousse, scambiandosi idee con semplicità e cooperazione.
Quasi sorrido. Sì, papà, a te e a Giuseppe sarebbe piaciuto. Promettiamo all’anziano del villaggio, agli abitanti presenti, ai bambini, che in qualche modo risolveremo il problema. Parleremo con i nostri tecnici e troveremo una soluzione. Qui l’acqua è vita e, ce lo avete insegnato voi, nei limiti delle nostre possibilità, dobbiamo sempre agire per la vita. Tra poco sarà buio; qui intorno all’equatore il giorno cede rapidamente il passo alla notte. E, dopo questa giornatina, non vorremmo dover affrontare il rientro al buio su queste strade. Ciao, papà; arrivederci, Giuseppe. Al prossimo anno.